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Lettura IntelligentePeople StrategySpeciale
Home›Lettura Intelligente›PUNTO, LINEA, CERCHIO E LE PAROLE DEL CAMBIAMENTO

PUNTO, LINEA, CERCHIO E LE PAROLE DEL CAMBIAMENTO

Di Ugo Righi
8 Agosto 2017
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Il futuro a piedi nudi
Abbiamo parole per vendere
Parole per comprare
Parole per fare parole
Andiamo a cercare insieme le parole per pensare
Abbiamo parole per fingere
Parole per ferire
Parole per fare il solletico
Andiamo a cercare insieme le parole per amare
(Gianni Rodari,  cantata da Sergio Endrigo)

 

 

Si è svolto nei giorni scorsi, al museo della pace di Napoli (MAMT), un convegno rivolto al mondo del giornalismo, organizzato da Kompetere sul cambiamento e intitolato “Il futuro a piedi nudi”.

“Bisogna cambiare”, questa frase la sento praticamente da quando sono nato e ne sono certo mi accompagnerà per il resto della vita.

Cambiamento è un’altra di quelle parole cornice (come creatività, come problema, e molte altre) che si usa per tante cose e spesso senza senso e consistenza.

Ma che cosa vuol dire cambiamento? Cambiare cosa? Perché? Quando? Come?

Il cambiamento non è un valore a priori.

Cambiamento per il cambiamento come fine non ha senso, deve essere collegato al risultato che si ottiene rispetto a uno scopo che migliora qualcosa della vita.

Il cambiamento a livello individuale è la trasformazione di potenzialità in attualizzazione di comportamenti migliori, il che significa non “diventare altro” ma essere meglio ciò che si è (potenzialmente).

Il primo livello di cambiamento è quindi: cambiare noi stessi, per poter agire in modo diverso verso qualcosa fuori di noi per cambiarlo o anche per saper conservare quello che esiste di bello e di buono.

Io penso che il vero cambiamento dovrebbe proprio essere questo: smetterla di distruggere il valore presente nel mondo.

Pensiamo ai nostri territori, alla conservazione del patrimonio ambientale, alla scomparsa di certe buone abitudini, al deterioramento del senso civico, alla incapacità di comunicare, ecc… .

Il cambiamento di valore ha senso se è selettivo, focalizzato, finalizzato a miglioramenti; cambiamento come capacità di condividere scopi e ottimizzare mezzi.

Poi bisogna smetterla di pensare che il cambiamento sia sempre qualcosa che riguarda gli altri e occorre passare dal chiederlo al praticarlo, spostando la qualità del contributo che diamo alla vita, nostra e degli altri, a cominciare magari dal cercare le parole per comunicare meglio (invito a leggere e ascoltare la canzone di Endrigo).

Ognuno può essere titolare di progetti di cambiamento utilizzando la propria personalità, la propria competenza, i propri strumenti.

E allora, detto questo, quali riflessioni possiamo fare sul mestiere del giornalista?

Il giornalista è dentro il cambiamento istituzionalmente.

Ha come punto di osservazione il mondo, lo svolgersi dei fatti e deve poter raccontarli e commentarli con la parola.

Raccontarli è neutro, commentarli no, e qui s’inserisce il grande tema dell’etica e dell’interpretazione.

Tema complesso che non è stato affrontato ma che certamente è sottotraccia a tutto.

La parola è il suo strumento chiave, se è bravo pensa la parola che fa pensare e fa capire, e essere, quindi, dentro il cambiamento.

Cambiare vuol dire agire sulla cultura, vuol dire cambiare il dominio di relazioni sociali in un sistema e quindi il giornalista scrivendo, ed essendo letto, influenza i pensieri, i comportamenti e la mappa del dominio delle relazioni sociali.

L’indicazione che è stata affrontata nel convegno ha evidenziato la suggestione dei “piedi nudi”, intesa come libertà e capacità di affrontare il cambiamento e la complessità con orientamento costruttivo verso il futuro.

Questo significa avere pensiero strategico e visione d’insieme con la consapevolezza degli effetti possibili e desiderati del proprio contributo al cambiamento.

Un orientamento strategico del cambiamento deve avere chiari i seguenti aspetti concettuali e pratici: il primo, lo ripeto, è che il cambiamento non è valoriale aprioristicamente, ma deve essere coerente rispetto al miglioramento della vivibilità, quindi

aggiungere, buttare, migliorare, ma anche, come affermavo precedentemente, conservare e difendere.

Poi occorre passare dall’idea del cambiamento inteso come stadio (momentaneo) a quella di stato (permanente), ossia si deve accettare la permanenza dell’instabilità come fatto fisiologico: il cambiamento non è un ponte tra uno stadio e un altro, non è un gradino di una scala, dove poi si arriva alla fine e ci si ferma, ma è uno “stato”, ossia una condizione permanente.

Non è una convalescenza, dove poi si guarisce e si ritorna come prima o comunque ci si ferma, finalmente.

Questo punto della permanenza contiene un effetto collaterale di grande rilevanza per le elaborazioni interpretative e riflessioni.

Se cambiamento è processo verso, allora si cerca ciò che manca, ma se il processo è permanente manca sempre qualcosa: la condizione della “mancanza” è insita nel processo.

Apre riflessioni utili anche rispetto a come cambiare nel fare formazione, passando da quella sloganistica o protettiva (con messaggi certi) o valutativa, a quella che allena all’incertezza aumentando la sicurezza fondata sul potere della conoscenza.

Altro punto è far intendere il cambiamento come necessità ma anche come benessere possibile, ma non ottenibile facilmente, e quindi collegarlo alla competenza intrecciata con il desiderio.

Chi ha più potere e conoscenza dovrebbe aiutare aumentando la comprensione di ciò che produce valore e quindi aprire le tende e illuminare il presente per comprendere qual è il divario rispetto a un futuro possibile e ambito.

Questo sia a livello micro (coppia), sia macro (istituzioni), tale azione aiuta a renderlo più euforico spostando il focus dai problemi alle opportunità.

Ripeto: questo dovrebbe essere lo scopo di chi ha il potere, un potere utile, lievitativo, inteso come verbo e distribuito, e  non un potere ottuso, quantitativo, ripartitivo, inteso come sostantivo.

Non tutti possono avere vantaggi dal cambiamento (chi detiene il potere negativo) e quindi le pratiche di chi è resistente s’intrecciano con chi è favorevole (normalmente chi ha meno potere).

Occorre smontare il cambiamento di coloro che lo usano per continuare a costruire castelli di garanzie (guardate il fenomeno dei vitalizi) difensive tese a rendere indiscutibile il loro potere.

Questo significa togliere sacralità a persone o comportamenti storicamente indiscutibili, ritualizzati da prassi antiche, tolti alla possibilità di critica, (sono decenni che alcune grandi ingiustizie o incoerenze note a tutti sono nei fatti immodificabili).

Lo sappiamo, spesso l’oggettività è la soggettività di chi ha più potere che costringe chi ne ha “meno di accettare l’oggettività come inopinabile impedendo così la possibilità di contribuire, davvero, al cambiamento” (Spaltro).

Il potere e la responsabilità devono coincidere così come il potere e la competenza: un poter senza responsabilità si chiama arroganza e una responsabilità senza potere si chiama velleitarismo.

Torniamo al giornalista.

Il potere è la possibilità di ottenere o impedire cambiamenti e le leve sono diverse, una di queste è collegata alla comunicazione.

Il giornalista ha potere!

Il potere del giornalismo si combina con altri poteri per aiutare a smantellare il potere negativo e aiutare processi di cambiamento utile, diminuendo le resistenze inevitabili dei soggetti e dei sistemi.

Le resistenze sono inevitabili e sono spesso legittime: le persone stanno bene se fanno ciò che sanno fare e vogliono fare in luoghi che conoscono e controllano.

Chiedere di cambiare è minacciante perché rischioso, occorre comunicare, tradurre, interpretare, insegnare e attrarre non colpevolizzare.

Occorre alternare il dolore e il sollievo evidenziando i vantaggi ottenuti o quelli ottenibili.

Anche se uno sta male spesso, anche se vorrebbe cambiare, ha paura di stare peggio quindi non cambia e aiuta, inconsapevolmente, chi lo fa stare peggio.

Infine il cambiamento dev’essere reticolare: a livello orizzontale determinando la fine della separatezza della conoscenza e dell’esperienza, a livello verticale determinando la fine delle posizioni -responsabilità ed entrando nella cultura della corresponsabilità.

Il giornalista della complessità e del cambiamento è titolare di una ipotesi di vita che prevede azioni di influenzamento etico-pratiche capaci di migliorare la vita.

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Ugo Righi

Ugo Righi

Sono nato a Firenze a San Frediano. Abito prevalentemente a Napoli e la vivo intensamente titolare di una rubrica “schegge di valore” di un giornale del sud. Poi risiedo, anche, nelle Langhe ad Acqui Terme e spesso a Barcellona e Boston. Consulente e formatore di People strategy svolta come partner ,sin dalla fondazione, di TesiConsulting Group , ho operato per più di 30 anni in organizzazioni e progetti di sviluppo per il rafforzamento della competitività e la generazione di valore. Ora libero professionista e consulente senior con GSO.

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