Se non si sente non si vede

Credo che non ci sia un’altra città al mondo che mette una così ricca varietà d’indicatori della vita negativi insieme atmosfere, evocazioni, suggestioni, straordinarietà che la rende la più bella del mondo. Parlo di Napoli, città repellente e attrattiva, città che non si può vivere, ma di cui è difficile fare a meno, luogo che nessuno riesce a far diventare come promette e dove tutto è possibile ma poco è probabile. Città da cui bisogna fuggire perché tutte le classifiche di vivibilità la vedono da qualche tempo all’ultimo posto, perché meno dell’ultimo non c’è niente, altrimenti scivolerebbe di più. Ma poi solo qui si possono trovare echi e magie che la mettono in testa a una classifica intangibile che non c’è.
Voglio raccontare un giorno qualsiasi, per offrire un frammento, un interstizio di questa città, dove dolore e piacere s’intrecciano in combinazioni poetiche. Esco dalla mia casa, è una parte della chiesa di San Francesco al Monte, dove vivevano le monache di clausura, e scendo lungo i grandi scaloni del palazzo del 600, lasciando le ombre della notte con suggestioni di monacelli e rumori mai compresi (i rumori della mia casa in un silenzio assoluto assumono sempre significati che è meglio non pensare) e mi perdo nel labirinto dei quartieri spagnoli. Essi risalgono al 1536, quando iniziò la lunga dominazione spagnola a Napoli e si estendono su una superficie di 765.016 mq. compresi tra il C. Vittorio Emanuele e Via Toledo, S. Lucia al Monte, vicolo delle Vergini, ecc. Ci sono alcuni negozietti dove si lavorano borse, cinture, scarpe, trattorie dove si possono gustare specialità napoletane in ambienti molto semplici, ma anche molto puliti contrariamente a quanto si crede. Tra i piatti tipici di una trattoria che conosco c’è quello degli “spaghetti con pomodoro fresco e basilico”, del “baccalà fritto” e della famosissima “pastiera di grano”. Sono sicuro che in ogni vicolo troverò una sorpresa. In Via Teatro Nuovo un gruppetto di donne fuori di casa come in un film, sedute intorno parlano fitto gesticolando, più avanti un materasso per terra in un angolo, da un balcone un canto di uccellini, in un altro vicolo quattro ragazzi dalla fronte bassa che mi guardano cupi. Uno di loro ha uno sguardo profondo e triste. La musica di qui, forte, a tratti bella, finestre aperte, case aperte, spazi privati improvvisati sulla strada. Un’estensione della propria casa che diventa una grande rete sociale. Una donna fa scendere un cestino con una fune da casa sua e il venditore di verdura lo riempie, un ragazzo sta vendendo giornali, passo di fronte ad un laboratorio di pasticceria e pane. Profumi, odori, puzze. Occhi, che sento addosso come denti, rifiuti (variopinti) accantonati, qualcuno urla da qualche parte, cappelle con foto di morti e con fiori, bigliettini, immagini sacre, amuleti, oggetti. Sensazione di leggero pericolo sempre possibile. Scendere nei vicoli è come fare un salto nella storia dei Borboni. Due bambini di cinque o sei anni sfrecciano con una strana potente piccola moto giocattolo (ma non è un giocattolo) lungo la strada stretta, urlando selvaggiamente come se dovessero assalire la diligenza, mi gridano qualcosa che non capisco. Passo davanti a un basso: una grande camera con l’angolo cottura e un bagno ricavato in un angolo, un arredamento variopinto molto colorato dove prevale il colore rosso, con alla parete un poster che rappresenta un giocatore di calcio, si chiama Maradona. Poi un vaso pieno di fiori, poggiato al centro del tavolo, sul letto una grande bambola seduta con l’abito di pizzo, sul comò qualche fotografia di propri cari scomparsi. Cammino, ascolto e vedo, poi immagino.
Entro nel palazzo un po’ cadente, dove aveva vissuto Leopardi. Una targa logorata lo ricorda con poca importanza. Provo a immedesimarmi: sono lui che entra nella sua casa, chiudo gli occhi. Mi accorgo che il portinaio ha smesso di spazzare il cortile e mi guarda un poco insospettito. Poi, dopo qualche minuto, e avergli sorriso, esco e scendo ancora verso il centro. Un altro portone mai notato prima è aperto, entro e dopo qualche istante di buio sbocco in un grande patio pieno di sole. In un angolo vedo ricurvo un vecchio che, “sommerso” da una “montagna” di fiori, ne sta componendo con pazienza dei mazzi. Quasi ipnotizzato da un sentimento d’irrealtà mi avvicino e gli chiedo con tono imbambolato cosa stia facendo. Lui alza gli occhi e con naturalezza risponde che sta lavorando, io poi chiedo se i fiori li venda e, lui, guardandomi ora come si guarda un bicchierino di carta, dice “vulesse a Maronna” liquidandomi. Allora gli consegno 15 euro. Mi riempie di un mazzo di fiori meravigliosi. Chiedo di conservarmeli che poi passerò dopo ed esco. Una giovane ragazza da una finestra mi sorride con naturalezza neutra e ospitale. A un angolo della via che poi arriva verso Toledo, un’anziana prostituta chiede di fermarmi qualche minuto, io la ringrazio e preciso che ho un appuntamento al Gambrinus e sono in ritardo. Lei insiste ed io sempre gentilmente, mentre continuo a camminare, rifiuto. Quando oramai sto per svoltare, sento che con aria malinconica mi dice “ facitilo almeno per cortesia”. Sorrido, c’è colore, viola penso, questo è il colore che la mia mente mette negli oggetti che guardo, nei profumi che sento, in tutto. Continuo a sentirmi in qualche modo privilegiato, “sento” i rumori forti, gli odori, il disordine cromatico che balza agli occhi, la luce intensa con spazi bui nei palazzi cadenti che conservano mille e poi mille eventi grandi e piccoli. Sento: “chissà chi aveva vissuto in questo palazzo del cinquecento, chissà cosa pensava e come sognava, di che cosa aveva paura e chi aveva amato.” Alzo lo sguardo verso una finestra con vasi di fiori e ora una donna anziana appoggiata, mi sorride mia complice in questo labirinto, o io vittima possibile.
La Pignasecca è sede del più noto mercato alimentare della città. Essa deve il nome a una pineta che sorgeva proprio nel luogo in cui si trova il mercato. Il termine “Pignasecca” si rifà, in particolare, a un’antica credenza popolare: si racconta, infatti, che un vescovo napoletano fece affiggere sul tronco di un pino una bolla di scomunica e, appena il foglio fu appoggiato all’albero, questo si seccò di colpo. Da allora la “Pignasecca” ha questo nome che ancora oggi la caratterizza. Proprio qui, in questa zona popolare e popolosa della città, si trova l’antico ospedale dei “Pellegrini” con le sue due chiese, la stazione della ferrovia “Vesuviana” e quella della “Funicolare di Montesanto”, che collega il quartiere alla collina del Vomero. Arrivo in Via Trinità delle Monache, su di essa si affaccia il grande edificio che fino a qualche anno fa ha ospitato “l’Ospedale Militare”, che risale al 1536. Esso fu fondato da donna Vittoria de Silva, monaca del convento di ” S. Gerolamo delle Monache”. Lei ebbe il permesso da Papa Clemente VIII di fondare il nuovo convento: “Trinità delle Monache”. Sull’altare maggiore si trovano due splendidi quadri: “La S.S.Trinità che incorona la Vergine ” e “I Santi della Santa Fede”. In una delle cappelline laterali è, inoltre, rappresentata una “Immacolata con gli S.S.Francesco e Antonio di Battistello Caracciolo. E’ una delle più famose strade dei Quartieri Spagnoli e prende il nome da una chiesa situata a Piazza Carità, costruita nel 1694 e destinata a un conservatorio di suore. Poi Via S. Liborio dove penso a “Filumena Maturano” di Eduardo De Filippo nella quale è rievocata la storia di una ragazza diventata prostituta per necessità. Filumena, infatti, abitava in un “basso” insieme a tanti altri componenti della sua famiglia.
Ecco, ho finito e mi fermo, ho vissuto tre ore di qualità della vita che pochi possono vivere e l’ho vissuta perché vivo qui in questa città “esagerata” dove quello che ho vissuto forse non è “vendibile”. Pensate che patrimonio straordinario se si riuscisse a “sentirlo”di più e in qualche modo riuscire a farlo”vivere”anche ad altri. Servono registi di valore, traduttori per turisti e interpreti per viaggiatori esigenti.