Contro il regionalismo differenziato che significa secessione del Nord

(di Raffaele Cimmino)
Il disegno di legge Calderoli – che, se approvato, introdurrebbe il regionalismo differenziato – già passato al Senato è ad oggi incardinato alla Camera. Questo progetto, nato dai referendum consultivi indetti dalla sola Lega, in Lombardia e Veneto, nel 2017, sembra dunque in dirittura d’arrivo. Tuttavia, la controriforma che ne deriverà non sarà certo, come affermano i suoi sostenitori, la realizzazione del federalismo già previsto dalla Costituzione dopo la riforma del titolo V. Si tratta invece di una vera e propria esasperazione del federalismo fiscale di storica marca leghista. Secondo il disegno messo in piedi dal ministro Calderoli, di cui – va detto – ha iniziato a discutere più di un governo precedente a quello in carica, le regioni potranno trattare con il governo il conferimento della competenza esclusiva di ben 23 materie (tra cui l’istruzione, le infrastrutture, l’energia) trattenendo la corrispettiva quota di imposte. Per rendersi conto della portata di questa previsione basti pensare che si è calcolato che in qualche caso una regione potrebbe arrivare a trattenere quasi il 90% delle tasse versate nel proprio territorio. Come su due piatti di una bilancia,come questo meccanismo favorirà le regioni più ricche di pari passo impoverirà ulteriormente quelle più deboli.
Come è evidente, infatti, le regioni con minor gettito fiscale non avranno le risorse sufficienti per gestire quasi nessuna delle 23 materie di cui potrebbero chiedere in teoria la competenza esclusiva. Non può esserci alcuno dubbio insomma che, come conferma l’ultimo documento presentatodall’Ufficio parlamentare di bilancio, queste intese a geometria variabile tra Stato e regioni provocheranno la frammentazione istituzionale e politica del paese. Alle contestazioni della distruttività di quella che è stata giustamente definita la “secessione dei ricchi” si è oppostol’argomento che verranno previamente fissati i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) per i servizi fondamentali ai cittadini. Si omette di dire però che realizzare i Lep comporterebbe, a fronte della riduzione del gettito da parte delle regioni ricche, un considerevole aumento della spesa corrente dello Stato.
Insomma, dato che molte regioni meridionali sono di fatto già adesso sotto il livello medio di prestazioni, visto l’ancoraggio alla spesa storica in vigore di fatto da decenni, si può immaginare che in momento di stasi dell’economia e del ritorno dei vincoli di bilancio si destinino ai Lep diverse decine di miliardi di euro ogni anno? Assai improbabile. Non a caso infatti il governo già prevede che le intese tra lo Stato e le regioni partano anche senza aver definito i Lep, che vengono rimandati di almeno un anno. Come dire che resteranno solo sulla carta. Nessun effetto sarà prodotto dalla clausola inserita dalla premier, secondo la quale la presidenza del consiglio potrà bloccare l’operatività di una intesa in mancanza della definizione dei Lep. Non si esagera dunque a definire l’autonomia differenziata una secessione di fatto: il governo Meloni sta innescando una vera e propria bomba a orologeria che minaccia la coesione nazionale. Eppure il principale partito della maggioranza è una forza storicamente devota all’idea di nazione. È un paradosso che questo governo e chi lo presiede stiano creando le condizioni per il dissolvimento dello stato-nazione italiano.
C’è una ragione però, e non nobilissima: lo scambio con il premierato. La Lega accetta il premierato solo in cambio dell’autonomia e il partito della presidente del consiglio fa passare l’autonomia in cambio del premierato. Anche qui però si è in presenza più che altro di un pio desiderio: che la centralizzazione del potere dell’esecutivo, che già oggi non è poco, possa bilanciare l’effetto dell’autonomia. Invece c’è un effetto che ne deriverà altrettanto dannoso da cogliere. Questo meccanismo sta andando di pari passo con l’accentramento del controllo da parte del governo delle risorse del Pnrr oltre che dei fondi europei. Il rischio che si corre a questo punto è che, mentre le regioni del Nord potranno gestire in autonomia le proprie risorse, quelle meridionali debbano ricorrere alla “benevola” disponibilità dell’esecutivo, che a questo punto potrà aprire o chiudere il rubinetto in modo discrezionale. Un meccanismo infernale per il Mezzogiorno che verrebbe così sottoposto a un ricatto permanente. Pochi però hanno colto questo pericolo.
L’unico che lo sta denunciando è il presidente della Campania. Mentre altri esponenti istituzionali meridionali non sembrano volersi esporre troppo e calcolano attentamente le proprie mosse, bisogna dare atto a De Luca di essere l’unico esponente di peso del Sud ad aver fatto della denuncia del blocco delle risorse e della minaccia dell’autonomia il tema di una forte battaglia politica. Se altri pensano di cavarsela con qualche dibattito, De Luca ha il merito di ricordare a tutti che la lotta politica è fatta di carne e sangue e va portata nelle piazze. Un buon viatico per una partita che per il Mezzogiorno non sarà meno che esistenziale.