Il non lavoro di giovani, donne e meridionali
(Di Raffaele Cimmino) I dati sull’occupazione, che vengono in questo momento ampiamente utilizzati dal governo per rivendicare un aumento di quest’ultima, se valutati più obiettivamente e spogliandoli dall’opportunità di piegarli alla propaganda, rivelano molto altro. Perché, anche se la curva delle assunzioni è in campo positivo, i problemi sono tutt’altro che superati, anzi. Questo è quanto si desume da una recente nota della Svimez. La quale introduce innanzitutto un elemento metodologico che consente una lettura più completa. Se ne desume che la disoccupazione, o almeno quella che risulta dai dati ufficiali, coglie solo una parte del reale divario tra persone occupate e persone che vorrebbero lavorare. Quello a cui la Svimez fa riferimento, per avere più chiaro il quadro, è il “tasso di mancata partecipazione” (l’indicatore “U–6” dell’US Bureau of Labor Statistics, o l’indicatore di Labour Slack dell’EUROSTAT). Si tratta di una misura alternativa di sottoutilizzo del lavoro che consente di registrare con maggiore accuratezza il divario tra domanda e offerta di lavoro.
A questo scopo rientrano nel campo di ricerca non solo i disoccupati ma anche gli “scoraggiati”, cioè quelle persone disposte a lavorare che però non cercano attivamente il lavoro e i “sottoccupati”, che sono invece gli occupati disposti a lavorare di più. Il labour slack, che è il criterio utilizzato dalla SVIMEZ è equiparabile al “tasso di mancata partecipazione” e tiene conto delle particolarità del mercato del lavoro italiano, aggiungendo agli “scoraggiati”, come definiti in precedenza, i “sottooccupati”, i quali sono composti dal 50% dei lavoratori impiegati in part-time involontario (lavoratori part-time che vorrebbero lavorare a tempo pieno).
Alla luce di questi criteri, in Italia i dati non dicono nulla di positivo. Il non lavoro risulta infatti pari al 19,3% e riguarda in totale 5,3 milioni di persone, che sono disoccupate, scoraggiate o sottoccupate. A oggi, la situazione più critica sul piano occupazionale è sicuramente quella del Mezzogiorno. Qui i dati si spingono a percentuali che sono più che doppie rispetto a quelle resto del Paese: (33% contro il 16% del Centro e l’11,5% del Nord), e riguardano in totale circa 2,9 milioni di persone, di cui circa un milione di disoccupati ufficiali, un milione e mezzo di occupabili e più o meno 400 mila occupati con part-time involontario. La regione con la percentuale più alta di persone non occupate o sottoccupate è la Sicilia con il 38%, seguono Calabria e Campania con il 36,8%, dato che è più di 4 volte quello corrispondente del Trentino-Alto Adige. Il tasso di “non lavoro” si assesta invece al 42% per le donne in età da lavoro del Mezzogiorno (il 24,8% nella media italiana). In Sicilia, Campania e Calabria circa una donna su due è disoccupata, scoraggiata o sottoccupata.
Non manca di fare la sua parte il cosiddetto “lavoro nero” che, soprattutto nel Mezzogiorno, diventa un elemento di part-time involontario, il quale, in Italia, incide complessivamente per il 57,9%. Un fenomeno presente soprattutto nel terziario in cui spesso un lavoro di 40 e più ore settimanale vede gran parte dello stipendio corrisposto “fuori busta”. Un fenomeno che fa sì che i lavoratori rimangano intrappolati in un lavoro sottopagato senza avere la possibilità di cercarne uno migliore e con maggiori garanzie.
Insomma, è chiaro che la situazione occupazionale appare drammatica per le donne e i giovani in generale, i quali poi hanno ancora minori possibilità se vivono al Mezzogiorno. Un fenomeno plasticamente denunciato anche dai grandi numeri di giovani, spesso con alta formazione, che lasciano il Sud in cerca di una situazione meglio retribuita e più consona alla propria formazione, o semplicemente di occasioni di lavoro.
Sarebbe necessario implementare un nuovo tipo di politica economica per rispondere a questi bisogni. Una politica industriale volta alla conversione della produzione per renderla ecologicamente sostenibile e in grado di occupare i rami più alti del nuovo mercato globale sarebbe un primo passo. Non va sottaciuto che il Pnrr, con le sue ingenti risorse, avrebbe potuto rappresentare un’occasione per avviare questo tipo di transizione del sistema produttivo; ma al momento siamo ben lontani dall’intravedere un programma di ampio respiro. Anzi, le stesse risorse sono state vincolate dal governo a una contrattazione vincolante con il ministro plenipotenziario Raffaele Fitto, con cui ogni regione deve sedersi a un tavolo per vedersi riconosciuti i fondi che pure le spetterebbe per finanziare i progetti in corso. Gli stessi fondi europei sono stati vincolari a questo percorso determinando per esempio il congelamento di quasi sei miliardi di euro del Fondo sviluppo e coesione destinati alla Campania.
Nel vuoto di prospettive sul terreno strettamente economico, è auspicabile che le risorse siano utilizzate il più ampiamente possibile per i processi di formazione e aggiornamento professionale che consentono ai giovani, alle donne ai non occupati di venire a contatto con il mondo delle imprese e di dotarsi delle necessarie competenze, come permette di fare, ad esempio, il programma GOL. Il successo di programmi come questi toglierebbe ragion d’essere al pretesto della carenza di una platea di occupabili formati e motivati. Al mondo delle imprese spetterà fare il resto, innovando e offrendo un lavoro di qualità e congruamente retribuito.