Marketing ingannevole, le conseguenze possono non essere solo economiche
Il vantaggio sul mercato è il fine cui mirano le imprese per affermare una propria supremazia commerciale ed aumentare così i profitti scalzando la concorrenza. Un fine certamente lecito ma il cui raggiungimento deve concretizzarsi in una strategia che non esuli dalla legalità. Una delle pratiche in cui le aziende sfociano più facilmente per raggiungere questo risultato più facilmente è quella del marketing ingannevole.
La serie di comportamenti in cui il marketing ingannevole può sostanziarsi è molto ampia ma hanno in comune l’obiettivo primario che è quello di ingannare sotto il profilo psicologico il consumatore. Questo risultato può essere raggiunto andando a falsificare, talvolta ad omettere, informazioni sul prezzo, qualità del prodotto, nome, logo, disponibilità sul mercato. Nel nostro codice di consumo, agli artt. 23-26 si fa riferimento alle pratiche commerciali ingannevoli e aggressive in cui rientrano anche ovviamente la pratica del marketing. Su di esse si pronuncia l’AGCOM le cui decisioni possono essere appellate dinanzi ai TAR.
Pur sembrando, almeno a un primo approccio, che tale pratica possa avere conseguenze negative solo sul piano economico commerciale, in realtà le ripercussioni possono talvolta spaziare anche su altri piani, andando a generare danni anche in ambito sociale o addirittura in quello della salute. È quanto dimostra il recente caso della condanna della Johnson & Johnson. La multinazionale è stata condannata da Thad Balkman, giudice del distretto di Cleveland (USA), a pagare 572 milioni di dollari. Il motivo? Avrebbe contribuito all’epidemia di oppioidi scoppiata nello stato dell’Oklahoma, una crisi sanitaria che avrebbe causato più di 6000 decessi negli ultimi 19 anni.
Secondo l’accusa, sostenuta dal procuratore generale Mike Hunter, la Johnson & Johnson avrebbe adottato tecniche di marketing aggressive e ingannevoli per vendere potenti antidolorifici di cui fornice il 60% degli ingredienti e che produce attraverso la sua sussidiaria farmaceutica Janssen. Una strategia che, per finalità meramente commerciali, avrebbe trascurato esigenze di trasparenza: tanto i medici quanto i pazienti non sarebbero stati informati correttamente sugli alti rischi di dipendenza. Una condotta che sarebbe all’origine di tossicodipendenze, overdose e gravi effetti collaterali per chi ha usufruito di tali prodotti. Nel corso del processo la multinazionale è stata accusata di aver volontariamente ingenerato un bisogno di oppioidi per aumentarne la vendita. L’avvocato della Johnson & Johnson ha provato a spostare la responsabilità anche sui medici rei, a suo dire, di essere consapevoli delle proprietà degli oppioidi e averli comunque prescritti con facilità.
Una crisi, quella della diffusione degli oppioidi, che non coinvolge solo l’Oklahoma, ma che attanaglia ormai da diversi anni tutti gli Stati Uniti. I morti totali per overdose da oppioidi sono dal 1999 circa 400.000. La sentenza dello Stato ha una portata enorme, andando a collocarsi in una schiera di riferimento per nuovi analoghi processi che saranno avviati in seguito a denunce (al momento migliaia) sporte da privati cittadini, città, contee. Le ripercussioni, scatenate da una sequenza a catena di sentenze che seguono la medesima direzione, potrebbero essere enormi per tutte le aziende produttrici di elementi oppioidi e case farmaceutiche che non ne abbiano opportunamente segnalato gli effetti. La multinazionale ha già annunciato che ricorrerà in appello.