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Home›Economia e Società›Terre rare, l’oro cinese del XXI secolo

Terre rare, l’oro cinese del XXI secolo

By Francesco Casini
15 Maggio 2020
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Con “terre rare” si intende un gruppo di 17 elementi della tavola periodica, fondamentali per la costruzione di buona parte delle tecnologie moderne. A discapito del nome, sono presenti in quantità considerevoli nella crosta terreste, più comuni di metalli come l’argento o l’oro, ma è la loro estrazione a presentare difficoltà elevate in quanto i depositi geologici sono molto piccoli e differenziati tra di loro. Un’estrazione efficiente è possibile solo in presenza di depositi sostanziosi e dove il costo del lavoro è molto basso.

L’uso nel settore industriale

Sono utilizzate in ogni campo dell’industria, dalla costruzione di magneti (che sfruttano il neodimio) ai componenti della missilistica, della fibra ottica e degli elementi dei computer. Altri oggetti che non possono essere costruiti senza i preziosi materiali sono: lenti ottiche, barre di controllo del plutonio, memorie ottiche, componenti hard dei dispositivi elettronici, sensori elettrici, catalizzatori delle macchine e batterie delle autovetture ibride.

Il 37% delle riserve mondiali (stimate intorno a 150 milioni di tonnellate), si trovano in Cina, seguita da Brasile (18%) e Russia (15%); altri giacimenti importanti sono presenti in India, Giappone, Sudafrica, Australia e Stati Uniti. Nella prima metà del XX secolo la maggior parte delle RE era estratta da Sudafrica e India e Brasile, fino alla scoperta delle miniere californiane di Mountain Pass, che fino al 1985 restarono le più produttive del mondo.

Dopo gli anni ’80

La situazione cambiò nel corso degli anni ’80, quando con Deng Xiaoping, la Cina avviò importanti processi di modernizzazione economica. Insieme all’economia di mercato, la RPC puntò molto sullo sfruttamento dei giacimenti di terre rare della Mongolia Interna (regione di sovranità cinese). Nel 1985 la Cina produceva il 21% delle terre rare utilizzate, fetta che nel giro di breve tempo crebbe esponenzialmente fino al 90% di fine anni ’90, per arrivare al 97% del 2012. La Cina poteva vantare costi di estrazione molto bassi e una legislazione del lavoro a maglie molto larghe, di conseguenza molte delle miniere di altri paesi furono chiuse perché incapacitate a reggere la competizione.

Altro problema dell’estrazione, che la rende particolarmente difficile nei paesi sviluppati, sono gli altissimi costi ecologici. Per ogni tonnellata di terre rare estratta, vengono liberati nell’ambiente circa 10.000 metri cubi di gas tossici, una tonnellata di rifiuti radioattivi e 75 metri cubi di acque reflue. Un paradosso è che questi materiali così costosi per l’ambiente siano necessari per lo sviluppo delle nuove tecnologie ecologiche. I motori delle auto elettriche, ad esempio, sfruttano nella maggior parte dei casi magneti al neodimio, mentre tutti i device elettronici che potrebbero far risparmiare sull’utilizzo della carta, sfruttano la quasi totalità della gamma di RE; anche il settore eolico ne fa largo utilizzo. Per tenere bassi i costi del lavoro, inoltre, si fa largo uso di manodopera semi-schiavile.

Negli ultimi tempi

Negli ultimi tempi si è cercato di rivitalizzare le miniere fuori dalla Cina, cercando metodi di estrazione più efficienti. L’impulso è arrivato nel 2010, quando la RPC tagliò le esportazioni in seguito ad una crisi diplomatica con il Giappone, facendo balzare alle stelle i prezzi dei materiali (lo scandio passò dal costare 2500 dollari nel 2009 al prezzo di 5100 pochi anni dopo). Gestire l’export in regime di monopolio rappresenta per la Cina una fortissima arma di pressione, specie ora che le tensioni con gli USA sono aumentate e la RPC sa che nessuno Stato al mondo può permettersi di farne a meno.

Tagscinacommercioenergiageopoliticamineraliterre rare
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